L’art. 174, paragrafo 2, del Trattato di Roma nel testo attualmente in vigore stabilisce che la politica della Comunità in materia ambientale “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga”. L’esordio enunciativo del principio in esame può essere fatto risalire alla Raccomandazione OCSE C(72) 128 del 26 maggio 1972 secondo la quale all’inquinatore devono imputarsi i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento come definite dall’Autorità pubblica al fine di mantenere l’ambiente in uno «stato accettabile», ma già nella legge francese 16 dicembre 1964, n. 1245, sulla istituzione delle agences financières de bassinveniva espressa compiutamente la formula “chi inquina paghi e chi depura viene aiutato”.
Nel corso del tempo il principio è stato analizzato utilizzando due differenti e in apparenza contrapposte chiavi di lettura:
1. da un lato, avvalendosi di argomentazioni di tipo giuridico–civilistico, è stato posto l’accento sul carattere risarcitorio dei prelievi ad esso ispirati;
2. da altro punto di vista, utilizzando strumenti di ispirazione pigouviana, sono stati evidenziati i connotati economici del principio, sottolineando la funzione di internalizzare le diseconomie esterne cui assolvono i prelievi ad esso ispirati.
In nessuna di tali letture, tuttavia, vengono evidenziati i riflessi che il principio “chi inquina paga” può avere sul piano fiscale. Pare al contrario che, per quanto sarà detto in appresso, il principio “chi inquina paga” possa avere un impatto notevole nella definizione del presupposto di un tributo a carattere ambientale, fino a legittimare l’assunzione delle condotte inquinanti a fatti–indice di una autonoma capacità contributiva del contribuente. Allo scopo di valutare appieno la fondatezza di tale assunto è necessario, in primo luogo, analizzare le fonti che lo disciplinano individuandone l’esatta portata.
In effetti, nessuna delle tesi (giuridico–civilistiche da un lato, economiche dall’altro) sostenute nel passato sembra idonea a rappresentare in modo adeguato l’effettiva portata del principio “chi inquina paga”, poiché entrambe omettono di considerare il valore di un elemento che emerge in modo evidente dalla definizione fornita dalla norma: quello del carattere coattivo del dovere dell’inquinatore di contribuire alle spese di protezione ambientale, che l’art. 174, par. 2, delinea in modo evidente attraverso la formula imperativa che utilizza per disciplinare il principio.
In verità, il principio in esame, per la notevole genericità delle norme su cui si fonda, è parso idoneo a coprire una serie alquanto ampia di interventi economici a tutela dell’ambiente e tra questi deve essere compreso senza dubbio anche l’intervento fiscale. Tale conclusione trova esplicita conferma nei recenti orientamenti della Commissione Europea, che ha evidenziato come le imposte ambientali, includendo i costi per la rimozione degli effetti inquinanti nei prezzi delle merci e dei servizi, permettono di realizzare il principio “chi inquina paga” attraverso la funzione di incentivo–disincentivo da queste esercitata. Anche in dottrina si registra un diffuso consenso sull’attribuzione al principio in esame di un significato più ampio di quello del mero nesso di causalità giuridica tra fattispecie (inquinamento) ed effetto (risarcimento) che la lettera della formula normativa lascerebbe intendere a prima vista, ritenendosi, per contro, che, secondo la concezione comunitaria, esso rappresenti il criterio generale di imputazione dei costi della protezione dell’ambiente.
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