Lo stesso diritto comunitario derivato conferma chiaramente tali orientamenti nella recente direttiva sulla responsabilità per danno ambientale, che è stata apertamente ispirata al principio in esame per realizzare politiche ambientali disincentivanti. La direttiva, pur essendo stata ricondotta nei primi commenti di stampa a mere esigenze risarcitorie (probabilmente dando un eccessivo risalto all’elemento testuale del titolo del provvedimento), tende in realtà a realizzare il principio in esame con modalità alquanto diverse e, comunque, di portata molto più ampia di quella del solo risarcimento del danno.
In primo luogo, essa prevede in modo esplicito la responsabilità dell’operatore non solo quando la sua attività abbia già causato un danno all’ambiente ma anche quando abbia prodotto una semplice minaccia di questo (secondo punto del preambolo e art. 5). Così disponendo, la direttiva amplia in modo considerevole il suo ambito di intervento, legittimando l’addebito all’operatore delle attività e dei costi necessari non solo al ripristino dello stato di salubrità dell’ambiente ma anche alla prevenzione dell’eventuale danno ambientale, in piena sintonia non soltanto con il principio “chi inquina paga”, ma anche con i principi della precauzione e dell’azione preventiva, nonché della correzione, in via prioritaria alla fonte, disciplinati unitamente ad esso dall’art. 174, comma 2.
Inoltre, la responsabilità dell’operatore è subordinata alla sola condizione che il danno (o la sua “imminente minaccia”) sia provocato da una delle attività elencate in apposito allegato (art. 3, par. 1, lettera a), a prescindere dalla presenza di un comportamento doloso o colposo di questi, che rileva soltanto per i danni alla specie e agli habitat naturali protetti (o per la “imminente minaccia” di questi) causati da attività professionali diverse da quelle espressamente elencate. La direttiva, per giunta, prevede che gli Stati membri hanno la mera facoltà (e non l’obbligo) di escludere la responsabilità dell’operatore per i costi delle azioni di riparazione soltanto qualora costui “dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo” e limitatamente ai casi in cui l’immissione sia stata effettuata in base ad “un’autorizzazione conferita o concessa ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari nazionali o si sia prodotta per ragioni che l’operatore “dimostri non essere state considerate probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell’emissione o dell’esecuzione dell’attività”.
Da ciò discende (la Direttiva non lo afferma espressamente ma è questa la conclusione alla quale perviene il Consiglio) che l’operatore è soggetto ad una responsabilità di carattere sostanzialmente oggettivo, in quanto, almeno per le attività menzionate nell’apposito allegato, viene subordinata al solo nesso di causalità tra l’attività esercitata ed il pregiudizio sofferto dall’ambiente e (fatte salve le suddette limitate eccezioni rimesse alla discrezionalità degli Stati membri) resta totalmente indipendente dall’esistenza di un comportamento doloso o colposo dello stesso operatore.
Per effetto di questa previsione la figura del danno ambientale sembra discostarsi non poco dal modello del fatto illecito (“aquiliano”) disciplinato dall’art. 2043 del nostro codice civile, al quale la dottrina prevalente riconduce, anche se con qualche esitazione e con talune importanti precisazioni, la responsabilità disciplinata dall’art. 18 della Legge 8 luglio 1986, n. 349 (istitutiva del Ministero dell’Ambiente), che attribuisce allo Stato e agli enti territoriali il diritto–dovere di agire in giudizio per il risarcimento del danno causato all’ambiente ed a concludere accordi transattivi per la definizione dei relativi risarcimenti.
In effetti, la direttiva sul danno ambientale non richiede all’operatore di rispondere del danno (soltanto) con una riparazione di carattere puramente monetario del danno subito ma gli impone interventi diretti la cui natura è rimessa ad una “appropriata discrezionalità amministrativa” delle autorità competenti di ciascuno Stato membro. Inoltre, sia pure in misura attenuata rispetto a quella prevista nella originaria stesura della proposta elaborata dalla Commissione, essa ha accolto un orientamento di tipo pubblicistico a mente del quale, fermo restando l’obbligo degli operatori di informare l’autorità competente e di prendere le misure appropriate al fine di prevenire i danni all’ambiente o di eliminare le conseguenze nocive dei danni provocati, viene prevista la facoltà degli Stati membri di adottare essi stessi “le misure di riparazione necessarie”. Per questi motivi, la direttiva stabilisce un criterio preferenziale per il ripristino piuttosto che per la liquidazione monetaria.
La responsabilità che la direttiva prevede, poi, ha contenuti molto diversi da quella disciplinata dall’art. 2043 del nostro codice civile, poiché, per sua esplicita previsione, essa non copre i casi di lesioni personali, i danni alla proprietà privata e le perdite economiche, limitandosi unicamente, al pari dell’art. 18 della Legge 349/86, a sancire l’obbligo di riparare il danno di carattere prettamente ambientale, con esclusione del risarcimento dei danni subiti a livello individuale, per i quali restano in vigore le norme generali in materiali responsabilità aquiliana.
Gli obblighi imposti dalla direttiva agli “operatori” responsabili delle azioni inquinanti consistono, invece, in primo luogo, nell’attribuzione a carico dei medesimi dell’onere di realizzare direttamente, ponendo in essere una serie di comportamenti attivi, tutte le misure di:
– prevenzione
–Â riparazione
–Â ripristino
del danno ambientale, ma anche dell’obbligo di collaborare con l’autorità competente del proprio Stato membro ad una costante opera di monitoraggio delle condizioni dell’ambiente contaminato dalle proprie condotte inquinanti. Con ciò introducendo nel suo tessuto normativo anche strumenti del tipo di quelli comunemente definiti di command and control. Soltanto subordinatamente alla mancata ottemperanza agli obblighi di intervento diretto previsti dalla direttiva gli operatori possono essere chiamati a rimborsare i costi sostenuti dall’Autorità nazionale per le azioni di prevenzione o di riparazione adottate direttamente.
Diversamente da quanto previsto nella direttiva, nel nostro ordinamento nazionale la previsione in via prioritaria di una riparazione monetaria come conseguenza della menomazione prodotta all’ambiente è considerata elemento essenziale per ricondurre la responsabilità per danno ambientale disciplinata dalla L. 349/86 all’interno del sistema della responsabilità aquiliana. In questo senso è stato affermato (Consiglio di Stato) che la fattispecie prevista dall’art. 18 della stessa legge, pur evidenziando profili di sicura specialità, deve essere ricondotta nell’area dell’illecito aquiliano, attribuendo al titolare una pretesa risarcitoria di natura pecuniaria. Tutt’al più, come ha evidenziato la recente giurisprudenza della Suprema Corte, la normativa speciale della L. 349/86 ha avuto principalmente lo scopo di conferire allo Stato, nonché alle regioni ed ai comuni, la legittimazione a richiedere direttamente ed autonomamente il risarcimento del danno ambientale.
Ma la diretta conferma della diversa natura della responsabilità ambientale rispetto alla responsabilità civile è espressamente affermata nel tredicesimo considerando della direttiva del 2004, nel quale viene affermato che la responsabilità civile non è “uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti”. Con ciò, evidentemente, si vuole circoscrivere l’ambito di applicazione della direttiva a quello che nella legislazione italiana è solitamente definito “danno pubblico ambientale”, lasciando alla legge nazionale il compito di disciplinare il risarcimento del danno subito individualmente.
Anche attraverso questa sua concreta e recente applicazione, dunque, il principio comunitario “chi inquina paga” si conferma “lo strumento per imputare in maniera equa i costi esterni dell’inquinamento” sottraendosi al modello risarcitorio tradizionale.
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